RICORDANDO TRIPOLI  (1956 1957)

 

Mentre scrivo i ricordi affiorano tumultuosi, ma devo concentrarmi sulla breve, evanescente storia che mi accingo a raccontarvi. Cosi che le estenuanti corse in Land Rover sulle piste infernali da Bu’Gren a Sebha, passando per Uaddan, Socna e il Gebelsoda (prima che la strada del  Fezzan costruita dalla SAASCO, fosse iniziata), oppure le storiche partite a ramino con i fratelli Annino, Mario Cardelicchio e compagni sotto le ombrose tettoie ai bagni sulfurei con l’immancabile radiolina che trasmetteva le belle canzoni di Elvis, oppure le scampagnate con Carlo Nucifora, Guido di Gloria, Vittorio Carella, ed altri a caccia di “beccagelsi e pernci” (che squisitezza arrostiti con spiedini di canna su un focolare improvvisato!!!!). E così, dicevo, queste immagini, questi ricordi vengono accantonati, pur se a malincuore.

Questa storia, semplice, che ciascuno di  noi, a suo modo ha vissuto, inizia nell’ottobre 1956 a Tripoli e, scaturisce dal ricorso di una gita “galeotta”. Ero stato ammesso a frequentare il secondo anno del corso per geometri all’istituto Guglielmo Marconi in Sciara Mizran dopo aver superato, a stento il primo anno grazie agli esami di riparazione su tre materie a settembre. Sapevo di ritrovarmi con buona parte dei miei compagni di classe per cui la mia sorpresa fu grande quando, insieme a loro, vidi prendere posto nei banchi di prima fila due ragazze, si dico due ragazze “femmine”!! Allora si riteneva che la frequenza del corso per geometri fosse un retaggio esclusivamente maschile e pertanto la presenza di due ragazze fu vista come un fatto insolito, carico di novità piacevoli per un verso, ma anche motivo di preoccupazione dovendo mantenere un comportamento adeguato e quindi subire limitazioni alla “libertà di espressione e di azione”, senza mettere in conto la malcelata invidia per le due povere fanciulle indifese in un covo di lupi…. Per ogni evenienza avevo optato per una condotta sul tipo: “so che ci siete ma non vi vedo” e cioè, per essere espliciti, all’insegna dell’indifferenza più becera . Altri compagni di classe si diedero da fare fin dall’inizio per ingraziarsele ma ciò non produsse altro se non un sano cameratismo e, debbo dirlo, anche loro, le ragazze si adeguarono ben presto prendendo parte agli “innocenti” scherzi alla prof.  Di diritto o ad altre amene scorrerie. Tutto scorreva come al solito nelle classi dei ragionieri e dei geometri, disposte lungo il loggiato ai tre lati e su due piani dell’istituto, un vecchio edificio una vola ospedale dei Turchi durante l’0ccupazione ottomana. Il cortile, insieme agli ampi loggiati, era il luogo di ricreazione a metà mattinata. Qui si passavano i compiti da copiare prima della prossima lezione, si facevano conversazioni e pettegolezzi, si intrecciavano amicizie o più semplicemente, si consumavano avidamente le ottime pizzette della biella. Al suono della campanella si rientrava tutti in classe da bravi ragazzi quali eravamo. I primi quattro mesi trascorsero tranquilli, pensavo soprattutto come far fronte alle crescenti velleità dell’insegnante di arabo prof. Mancuso o alle squisite nefandezze dei vari teoremi topografici o dei calcoli delle strutture in cemento armato impartite dall’ineffabile prof. Lontana. Cominciai a rendermi conto di essere osservato da Vera, una delle due ragazze, dopo una gita scolastica a Leptis Magna durante la quale avevo mostrato qualche cedimento nei suoi riguardi. Forse fu la sua innata curiosità, ma non escluderei che la mia pervicace indifferenza, mostrata fino ad allora aveva, in qualche misura, ferito il suo orgoglio. Rimane il fatto che, da allora, le sue attenzioni si fecero più dirette mentre le mie difese vacillavano sgretolandosi giorno dopo giorno. Il colpo di grazia lo ebbi in occasione di una gita scolastica a scopo didattico verso i primi di aprile del ’57. Meta della gita era una fattoria modello gestita da una famiglia di italiani in un villaggio poco lontano da Tripoli. Ricordo che uno degli insegnati che ci accompagnavano era, appunto, quello di agraria ed estimo il prof. Viscardi, un uomo simpatico, alto dinoccolato, con grandi baffi rossicci e capelli a spazzola ( non c’era altro modo di pettinarli!!). Durante il trasferimento in pulman ci eravamo sgolati a cantare le solite “osterie” e raccontare barzellette, mentre i filari di eucalipto lungo la strada scorrevano veloci. La visita alla fattoria durò parecchie ore, visitammo le stalle, il forno, i magazzini del frumento e, naturalmente  parte, della tenuta coltivata a oliveto e frutteto. Gli italiani avevano compiuto autentici miracoli imbrigliando le dune, estraendo l’acqua in abbondanza con i pozzi artesiani, piantando oliveti a perdita d’occhio, e questa tenuta ne era la conferma ed un esempio insieme. Verso l’una improvvisammo dei bivacchi con vivaci tovaglie sull’erba e si divorarono decine di “filoncini” con tonno, pomodoro, olio d’oliva e felfel!!!. Poi fummo liberi di trascorrere il  resto del pomeriggio senza un programma prestabilito e subito si formarono i gruppetti. Fu allora che io e Vera ci avviammo, senza dar troppo nell’occhio, lungo un sentiero tra gli ulivi. Il tempo era cambiato, adesso era leggermente nuvoloso ed una brezza fresca non faceva sentire la stanchezza delle ore trascorse .Il brusio delle voci ed il fragore di improvvise risate, man mano che ci allontanavamo, si affievolivano sempre più lasciando il posto ad un silenzio incantato ed al fruscio delle fronde argentee degli ulivi ad ogni rinforzo di vento. Ci sedemmo sull’erba, lei appoggiata ad un tronco contorto. Le ombre tenui delle foglie creavano giochi di luci sul bel viso di Vera. Parlammo di tante cose, della bellezza del luogo, dei nostri compagni, della tristezza per l’approssimarsi del rientro e di un altro giorno di scuola….. Si intercalavano lunghi silenzi. Parlavano per noi gli sguardi ora timidi ora audaci. Mi avvicinai per districare con delicatezza alcuni fili dorati dai suoi capelli che si erano impigliati nella corteccia dell’ulivo  ma dovetti scioglierli del tutto e la chioma bionda e soffice le avvolse le spalle. Ero vicinissimo al suo viso, ne vedevo i tratti delicati, le ciglia, il profilo perfetto del naso e della bocca. Una profonda emozione mi pervase, sentii la mia voce chiamarla con dolcezza. Vera si volse a guardarmi capì che il momento era giunto: socchiuse le palpebre e mi offri le sue labbra. Fu un bacio lieve, vibrante, fatto di mille altri baci, dolcissimi come carezze che ci inebriavano facendoci perdere la cognizione del tempo e del luogo. Avevo immaginato tante volte quel momento ma adesso mi accorgevo con gioia e stupore che era infinitamente più bello e diverso da quello che mi sarei aspettato. Non ci misi molto tempo a capire che dentro di me stava nascendo un nuovo, misterioso sentimento.