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UN VECCHIO NEL DESERTO

 

 

 

Al Azizyha è un piccolo paese a sud ovest di Tripoli è a circa cinquanta chilometri di distanza. E’ l’ultimo paese prima dell’inizio della Gefara, la grande pianura desertica che si estende fino ai piedi delle montagne rosse del Gebel.

 

E’ una delle regioni più calde del mondo, l’altra si trova nel Tibet.

 

Da  Azizyha parte, verso i monti una lunga strada rettilinea, all’incirca di cento chilometri, circondata da dune e da cespugli di sparto, una pianta graminacea che nasce in regioni aride e ci cui sottili rami sono molto pregiati per la produzione della carta, soprattutto dei papiri, e per la tessitura di cordami e stuoie.

 

Tra i cespugli si intravedono numerosi uccelli somiglianti, per grandezza e aspetto a delle gallinelle. Infatti vengono chiamati galline del deserto, “ghatahr” in arabo. Frequenti anche gli incontri con i topi del deserto, lunghi circa venti trenta centimetri con una lunga coda che raggiunge dimensioni dell’intero corpo.

 

Nel percorrere questo lungo rettilineo, assolato per tutti i giorni dell’anno, sembra andare incontro a un grande lago. I raggi del sole, che si irradiano sulla sabbia giallo-rossastra, danno luogo a un miraggio e all’impressione che la terra sia acqua.

 

La zona è desertica, tuttavia, ogni tanto, si incontra qualche automobile, qualche autocorriera, qualche arabo con i suoi cammelli, ma in prevalenza dromedari.

 

Un giorno percorrendo questa strada per raggiungere il piccolo ospedale di Jefren , costruito sul punto più alto della catena rocciosa, fermai di colpo la mia jeep perché notai la presenza di  un omo seduto, quasi sdraiato e appoggiato a una piccola duna, a ridosso del manto stradale.

 

Si trattava di un vecchio, dall’apparente età di almeno ottanta anni, ma sicuramente ne aveva di meno. Avvolto nel suo baraccano di lana, malgrado i quasi cinquanta gradi al sole, aveva un aspetto ascetico. Magrissimo, con i lineamenti tirati. Grossi solchi rugosi pieni di sabbia gli segnavano il volto. Era asciutto come la sabbia sulla quale sedeva.

 

Gli andai incontro con la convinzione di doverlo soccorrere. “labas”  gli dissi, che è un termine arabo non traducibile in italiano, ma che ha un significato di amicizia e di interessamento nei confronti del prossimo. Gli chiesi se avesse bisogno di qualcosa o se desiderasse un passaggio per raggiungere il centro abitato più vicino.

 

Mi rispose cortesemente, porgendomi la mano, esordendo con “Allah Akbar”, Dio è il più grande. In quel  tempo questa espressione era un vero segno di amicizia e di pace. Oggi viene usata per farsi saltare in aria imbottiti di tritolo e per portarsi dietro quanta più gente possibile. Il vecchio continuò dicendo che, grazie a Dio aveva tutto: una buona salute, il sole, la tranquillità il tempo per meditare e, per nutrirsi, ance quel po’ di “zammita” necessaria per quel giorno, una specie di polenta solida preparata con acqua e farina d’orzo. Mi chiese se volessi dividerla con lui. Ne presi un pezzettino, per cortesia e per ricambiare il segno di amicizia.

 

M fermai per circa un’ora a parlare con questo personaggio, introvabile uno simile anche se mi fossi messo a viaggiare per cento anni.

 

Era un uomo povero, sapeva a mala pena leggere e scrivere, ma parlava come un filosofo. Tutto quello che diceva era saggio. Mi disse che viveva non lontano da lì, in una “zeriba” una specie di capanna costruita con i rami di sparto intrecciati tra loro r ricoperta di stuoie. Non era difficile, ancora all’inizio degli anni sessanta, in regioni desertiche, trovare piccoli agglomerati di famiglie che vivevano quasi di niente.

 

E questo è uno dei tanti misteri del deserto.

 

Mi raccontò che aveva avuto due mogli, undici figli, sei dei quali morti entro il primo anno di vita, che aveva fatto il contadino, nel senso che coltivava quegli ortaggi che potevano servigli per il sostentamento, allevando contemporaneamente qualche pecora e qualche capra dalle quali poteva ricavare il latte e la carne quando queste invecchiavano.

 

Al termine del colloquio, salutandomi con il solito rituale, mi chiese se poteva fare qualcosa per me. Rimasi sorpreso, ma mi ripresi subito. Cosa poteva offrirmi? Non aveva niente, né poteva aiutarmi in altri modi. Tuttavia mi aveva già dato molto. Mi aveva insegnati come si può essere ugualmente soddisfatti e sereni anche senza possedere materialmente nulla.

 

Ma proprio nulla? Aveva a sua completa disposizione la luminosità del sole, la stupenda luna che, vista dal deserto., è grande quattro volte quanto possiamo vederla noi, ma è più lucente è da quasi un senso di calore. Aveva a sua disposizione tutto il cielo azzurro che di notte si trasformava in un manto stellare. Aveva a sua disposizione lo spazio senza confini.

 

Era lontano dai rumori, dalla cattiveria, dalla sopraffazione.

 

Lo salutai sapendo che non l’avrei più rivisto. Continuai a guardarlo dallo specchio retrovisore, mentre in quel rettilineo la sua immagine diventava sempre più piccola e sfumata in uno sfondo di sabbia, di dune, di deserto.