Storia della Libia

 

 

La storia della Libia che vi presentiamo, vuole, non solo porre in luce la realtà storica del territorio, ma, soprattutto, parlare della Collettività italiana: dal suo arrivo in Libia alla sua “cacciata”, del suo duro lavoro che ha trasformato lo “scatolone di sabbia” libico in campi fertili, coltivabili e ricchi di ogni ben di Dio; e ciò, nonostante non esistessero ancora le odierne attrezzature tecniche in grado di aiutare i nostri contadini nei loro pesanti lavori. Quindi ….tutto “olio di gomito” dei nostri padri (lavoro finora misconosciuto), i quali – ed è innegabile – hanno realizzato un´opera, la cui grandiosità è tutt´oggi visibile, nonostante le perdite causate dall´inerzia e dall´incuria degli ultimi anni.

 

Per decenni è stato presentato su giornali e libri solo ciò che l´Italia fece “di brutto e atroce” in Libia. Si è continuato e si continua a cavalcare questa infamia, dimenticando che gli Italiani in Libia hanno portato anche e soprattutto benessere, dignità, assistenza sanitaria, scuole e quant´altro ha abbisognato per fare di Tripoli una tra le più belle città del Mediterraneo, prima di venirne depredati ed espulsi.

 

Giudicare un periodo storico non è compito di giornalisti, spesso faziosi, ma di storici seri ed equidistanti, che tengano conto anche del particolare momento storico e politico internazionale in cui tutto ciò è avvenuto. Sicuramente – e non è retorica – l´Italia non depredò la Libia, come invece fecero altri Paesi in altre colonie, ma si comportò come si sarebbe comportata (o avrebbe dovuto comportarsi e questa mancanza fu sí un errore) nel nostro meridione, già in quel periodo costretto ad una spietata emigrazione, a causa delle depredazioni del nord “unificatore”.

 

 

“Sotto specie di veritá, non di metafora, noi siamo dei pezzi da gioco e il cielo è il giocatore. Giochiamo una partita sulla scacchiera della vita ed ad uno ad uno ce ne torniamo nella cassetta del Nulla”

(Omar Khayyam)

 

Gli esperti e gli studiosi del tempo sconsigliavano il nostro intervento in Libia per varie ragioni: primi fra tutti il clima inospitale e l’aridità del terreno, soprattutto in Tripolitania e Fezzan. Inoltre, la Libia aveva attracchi infidi, mancava di acqua, (relegata in scarsi pozzi in prossimità delle oasi); ma, soprattutto, mancava dei tanto desiderati giacimenti minerari (il petrolio era di là da venire), che avrebbero potuto affrancare l’Italia dall’Inghilterra e dalla Germania. Ridare vita alla Libia implicava ingenti somme di denaro, di cui l’Italia non disponeva neppure per aiutare il proprio Sud; per di più in Libia bisognava cominciare da molto al di sotto dello zero.

 

 (Trincea italiana nell´oasi)

 

Ma, allora, cosa spinse l’Italia ad occupare la Libia? 

 

I motivi erano tanti e tutti più o meno giustificati, se si considera la mentalità di quel tempo.

 

Dopo le guerre del 1870 in Europa si respirava aria di cambiamenti; presto gli Stati europei avrebbero ripreso la loro espansione in altri Continenti e ciò non solo per esigenze economiche, ma anche e soprattutto, per prestigio nazionale. L’Italia aveva parecchi problemi dopo aver trasferito la sua capitale a Roma ed essere riuscita a sottrarsi all’influenza francese: non era del tutto unificata (l’Austria-Ungheria era presente ancora in Trentino, Trieste, nell’Istria, nella Dalmazia), aveva un sistema economico debole non in grado di competere con gli altri Paesi europei; le sue tecnologie erano obsolete e, non ultimo, dipendeva dall’Inghilterra e dalla Germania per l’approvvigionamento del carbone. Inoltre, il bilancio statale era costantemente in deficit (soprattutto a causa di un sistema tributario inefficiente) e di conseguenza molte delle spese necessarie (ad esempio per l’armamento navale) non venivano effettuate. Infine, pesavano sul Governo i problemi interni dovuti alla incompleta unità dello Stato e alla enorme differenza sociale venutasi a creare tra il Nord e il Sud del Paese. 

 

Il desiderio di espansione portato avanti da Crispi, più ancora che una esigenza demografica ed economica, fu un mezzo per rianimare il sentimento nazionale. Crispi non voleva che l’Italia restasse fuori dal novero delle grandi Potenze ed avviò una attività coloniale, che secondo i canoni del tempo era da considerarsi gloriosa. Inoltre, le scelte italiane furono influenzate dalla situazione del Mediterraneo di quegli anni, estremamente preoccupante per l’Italia, imbottigliata, soffocata e accerchiata: L’Italia, per comunicare con il mondo, doveva passare fra due porte marittime altrui: Suez e Gibilterra. Tutta la costa africana e asiatica del Mediterraneo, da Tangeri ad Alessandria (tranne il tratto libico, in gran parte deserto e senza porti degni di questo nome) era dominata da altre potenze. Da Tolone alla Corsica, da Biserta a Malta, da Corfú a Cataro, da Spalato a Selenico, una morsa di basi straniere stringeva d’assedio la penisola.

 

E come se non bastasse, l’Italia veniva “snobbata” dalle grandi potenze come dimostrano i fatti successi anni dopo, quando l´Italia era già presente in Libia. Dopo la prima guerra mondiale, Francia e Inghilterra s’erano fatte assegnare i mandati sulla Siria e la Palestina, mentre, con metodi sleali era stato negato all’Italia il diritto di partecipare al regime internazionale di Tangeri e si era persino tentato di negarle il possesso del Dodecanneso. Per ammettere l’Italia a Tangeri ci volle la spettacolare iniziativa del 28 ottobre 1927, quando una squadra navale italiana comparve davanti alla città marocchina in un gesto che fu risolutivo “atto di presenza”, tanto da indurre la Francia a rassegnarsi a vedere anche l’Italia nell’amministrazione di Tangeri (Inghilterra e Spagna consenzienti).

 

Per finire, ma non per questo meno importante, ad influenzare le decisioni governative italiane, c’erano gli interessi del Banco di Roma, espressione del Vaticano (che ivi aveva gran parte dei suoi risparmi), e che era presente a Tripoli già sotto i Turchi e che sperava, da una conquista, di trarre vantaggi economici insieme ad altri capitalisti italiani che avevano tentato la fortuna, ma che ancora non avevano ottenuto risultati sperati.

 

 (Banco di Roma)

 

L’impresa di Tripoli non fu semplice per la forte opposizione, non solo dei Turchi, ma anche delle popolazioni autoctone senusse, sobillate dall’Inghilterra (nonostante quest’ultima fosse alleata dell’Italia).

 

(cavalieri arabi)

 

L´odio è un sentimento che porta all´estinzione dei valori

(José Ortega)

 

Oggi la Libia “gheddafiana”, seppur, adotti misure coercitive banditi dagli accordi internazionali, che mai nessun giornalista “impegnato” ha avuto il coraggio di porre all´attenzione della pubblica opinione, muove parecchi rimproveri e rinfocola l´odio tra i due popoli senza che mai un solo atto di protesta sia giunto dai nostri governanti (di ogni colore politico), intenti come sono a proteggere i proventi del petrolio libico.

Dalle pagine che seguono arriva, per contro, la descrizione dell´inaudita ferocia che le nostre truppe, seppur da occupanti, subirono dal nemico.

 

Le Journal: “Ho visto, in una sola moschea, diciassette italiani crocifissi, con i corpi ridotti allo stato di cenci sanguinolenti ed informi; ma i cui volti serbano ancora le tracce di un´infernale agonia. Si è passati per il collo di questi disgraziati una lunga canna e le braccia riposano si questa canna. Sono stati poi inchiodati al muro e morirono a piccolo fuoco, fra sofferenze inenarrabili. Dipingervi il quadro orrendo di queste carni decomposte, che pendono pietosamente sulla muraglia  insanguinata è impossibile. In un angolo un altro corpo è crocifisso, ma siccome era quello di un ufficiale, si sono raffinate le sue sofferenze. Gli si cucirono gli occhi. Tutti i cadaveri, ben inteso, erano mutilati, evirati, in modo indescrivibile e i corpi apparivano gonfi come informi carogne. Ma non è tutto! Nel cimitero, che serviva di rifugio ai turchi e donde tiravano, da lontano potemmo vedere un altro spettacolo. Sotto la porta stessa di fronte alle trincee italiane, cinque soldati erano stati sepolti fino alle spalle; le teste emergevano dalla sabbia, nera del loro sangue: teste orribili a vedersi; vi si leggevano tutte le torture della fame e della sete. Debbo ancora parlarvi di tutti gli altri orrori, debbo descrivere tutti quegli altri corpi che sono stati trovati sparsi nei palmeti fra i cadaveri degli indigeni? Lo spettacolo è indescrivibile. È un calvario spaventoso, del quale ho seguito le fasi con le lacrime agli occhi, pieno d´immensa pietá, pensando alle madri di quei disgraziati figliuoli”.

 

…….. e il corrispondente de “le Matin”:

 

I piccoli bersaglieri, caduti il 23 ottobre, non morirono solamente da eroi, ma anche da martiri. Non trovo parole adatte per esprimere l´orrore provato oggi, quando in un cimitero abbandonato abbiamo scoperto questi miseri avanzi. Nel villaggio e nel cimitero arabo era stato operato un vero macello: degli ottanta infelici fatti prigionieri, i cui cadaveri si trovavano lì, è certo che almeno la metà, erano caduti vivi nelle mani degli arabi e che tutti sono stati portati in questo luogo contato da mura, dove gli arabi erano al riparo dal piombo italiano. Allora è avvenuta la più terribile e ignobile carneficina che si possa immaginare. Si sono loro tagliati i piedi, strappate le mani, evirati; poi sono stati crocifissi. Un bersagliere ha la bocca squarciata fino alle orecchie, un altro ha il naso segato in piccoli tratti, un terzo ha infine le palpebre cucite con spago da sacco. Quando si pensi che due ore prima di cadere questi eroi avevano diviso amichevolmente il rancio con gli arabi che dovevano torturarli, non si può non provare un indicibile senso di stupore e di orrore”.

 

 

In guerra, vincitori e vinti, subiscono enormi perdite umane e le nefandezze non sono mai solo da una parte

                                                                                                                                           

 
 
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Con la pace di Losanna* le tre regioni che formano la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan diventano italiane e, unificate, si chiameranno Libia, dall’antico nome con il quale i romani chiamarono le popolazioni autoctone .

 

Da cielo, terra e mare la nostra Tripoli ci è sempre apparsa, intrisa di profumi, colori e magia, forse perché ci era tanto cara; lì era la nostra casa, le nostre amicizie e i nostri affetti.

Ma, come apparve per la prima volta agli occhi dei nostri padri e nonni?

 

 

Secondo alcuni documenti diplomatici inglesi e francesi che risalgono al 1700 fino alla nostra occupazione militare, passando per il periodo della Reggenza Caramanli, Tripoli era una città sul mare, compresa entro mura alte e robuste, quella che per noi era la “città vecchia”, munita di sei bastioni. Dalla parte del mare sorgevano tre piccoli castelli piramidali; uno ad ovest della città e l’altro a nord, all’imboccatura del porto, il terzo a sud-est sulla terraferma, chiamato il forte inglese. La città aveva due porte una a sud verso l’interno e l’altra a nord verso il mare, là dove la città si estende a forma di mezzaluna.

 

(Tripoli nel 1600)

 

Il suo porto era profondo e spazioso abbastanza da contenere 80 vascelli mercantili che potevano ancorarsi fin sotto le mura del castello, mentre le navi da guerra erano obbligate a fermarsi al Forte inglese.

 

Il Castello di Tripoli, situato a sud est della città vecchia, un tempo era bagnato da tutti i lati dall’acqua, era (è) un edificio a base irregolare quadrato. Aveva due porte verso la città e due postierle (porte a catene) una verso il mare e l’altra verso la campagna. Era  munito di cannoni di bronzo, sufficienti per proteggersi da un attacco interno di Mori e Arabi ma del tutto inefficienti contro le artiglierie delle navi da guerra straniere.  

 

La vita si svolgeva all’interno delle mura dove sorgevano mercati, moschee, fondaki e un (!) solo bagno pubblico, perché la città non era provvista di acqua (sarà portata solo con l’arrivo degli italiani) e nelle case della città vecchia, nel 1700, l’acqua utilizzata era quella piovana mentre nel Castello si utilizzava quella di una sorgente fuori città.

 

Al di fuori delle mura, che circondano la città a sud-est e sud-ovest si trovavano case di campagna e giardini, ove per giardini non si intende la coltivazione di fiori ma di cavoli, fave e ogni tipo di verdura coltivabile da utilizzare per il fabbisogno della città. Al di la della campagna, a circa 5-6 miglia, c’era il grande deserto in continuo movimento.

 

Secondo stime statistiche ufficiali di quel tempo, in Italia, nei primi del novecento vi erano:

 

1354 comuni con acqua cattiva o scarsa; 4877 comuni senza fogne; 1700 comuni dove non si mangiava pane; 4355 dove non si mangiava carne; 600 comuni senza medico e 366 senza cimitero. I circondari malarici erano 154; i pellagrosi 100.000 e vi erano 200.000 abitanti che non avevano case, ma tane sotterranee.

 

Quindi, l’impresa di Libia era giudicata una follia dai pensatori più corretti ed equidistanti del tempo perché, per la bonifica di quelle terre aride, erano necessari ingenti somme di denaro, il cui mancato impiego in Italia, avrebbe inciso negativamente per molti anni sull’economia del nostro Paese (avevano stimato per mezzo secolo) e, in particolare, soprattutto quella delle regioni più povere.

 

Ciononostante si andò a Tripoli, in un territorio di 410.000 miglia quadrate, che, secondo un sondaggio di agenti ufficiali italiani, era privo di miniere fruttifere. La Tripolitania, era arida come il territorio algerino, tranne l’oasi di Tripoli, paragonata a quella di Biskra, in Algeria. La Cirenaica era l’unica regione che disponeva di una quantità di terra sufficiente per il popolamento di una grande colonia, così come auspicato dall’Italia. Mancava, però, di acqua. Le nostre maestranze sostennero che in Libia bisognava provvedere a tutto. Dalle strade rotabili alle ferrovie, dai porti ai pozzi, agli sbarramenti per bacini d’acqua.

 

A quattro mesi dallo sbarco italiano ci si chiedeva che genere di colonia sarebbe diventata la Libia: di popolamento, di sfruttamento oppure commerciale.

 

Scartata l’idea di un semplice impianto commerciale e scartata quella della colonia di sfruttamento, perché il paese era troppo povero; la colonia sarà obbligata a diventare una colonia di popolamento. Infatti, la popolazione indigena era scarsa rispetto alla considerevole estensione delle terre coltivabili, libere e facilmente  affrancabili. Quest’ultime, però, come detto, avevano il grosso problema della mancanza d’acqua. Il problema idrico, dunque, insieme a quello della mancanza di vie di comunicazioni efficienti, fu portato al centro del dibattito politico italiano, da coloro che erano contrari a questa avventura in terra d’Africa

 

L’Italia, tuttavia, iniziò la colonizzazione dividendola in tre fasi:

 

1° : terminare al più presto le operazioni militari;

2° : iniziare una campagna di lavori pubblici;

3° : avviare un imponente programma di opere agricole

 

Trascurando la prima fase che è di stretta competenza di storici “onesti” (non mi stancherò mai di ripeterlo! perché oggigiorno, purtroppo, la storia e non solo quella, della Libia viene scritta da personaggi appartenenti alle lobby più svariate). Nella seconda fase l’Italia investì ingenti capitali in Libia, come si vede dal seguente elenco di lavori pubblici di cui si fece carico:

 

La costruzione dei porti;

La prima ferrovia che fece uscire dall’isolamento la Libia;

La strada litoranea (di cui oggi Gheddafi chiede il rifacimento sulla falsariga di quella, certo ormai superata, costruita dall’Italia a quel tempo).    

 

Vale più un grammo di religione accompagnato dalla buona fede, che mille quintali accompagnati dal tradimento

(proverbio arabo)

                                                              continua